Nel pieno dell’emergenza

Nel pieno dell’emergenza ambulanze in città, coordinato dai complici in contatto tramite walkie talkie, alle ore 17 in punto, Carmine, dopo aver attraversato le strade in moto a tutta velocità, si ferma ad un centinaio di metri dal Centro Culturale Islamico, estrae un telecomando dallo zaino che porta in spalla e preme il pulsante che innesca la bomba. Il boato della detonazione arriva una frazione di secondo prima dello spostamento d’aria che Carmine percepisce come uno schiaffo caldo sul volto. Senza fretta e senza dare segni di nervosismo, Carmine rimette il telecomando nello zaino e riparte, sicuro che per un bel tratto non ci saranno né auto dei carabinieri né pattuglie della polizia ad intralciare la sua fuga. Un operazione pulita, facile ed indolore che gli consegnerà un nuovo ruolo all’interno della ‘ndrina. Poco importa se quello che doveva essere un atto intimidatorio abbia provocato morti e feriti.
È questa infatti la scena che colpisce i primi soccorritori, quando arrivano, parecchi minuti dopo l’esplosione. Un enorme squarcio nel muro esterno dell’edificio, nell’angolo più lontano dall’ingresso, lungo la parete adiacente la strada ed un cumulo di macerie sul marciapiede. All’interno, una serie di corpi riversi per terra, sparpagliati nelle diverse sale dell’edificio e soprattutto nel corridoio centrale. Fra questi i poliziotti identificano immediatamente soltanto Alì Assad Al Maghrebi, il famoso telepredicatore, privo di conoscenza. Altri due uomini vengono trovati riversi al suolo. Uno di essi è senza una gamba, ma non esce sangue dalla ferita.
“È ancora vivo… il cuore batte. L’emorragia dovrebbe essere enorme…”, dice il poliziotto che per primo ha trovato il corpo. Il corridoio è pieno di fumo e questo rende tutto più difficile.
“Qui c’è la gamba…”, dice un altro, inorridito, dieci metri più in là, con l’arto fra le mani. Poi finalmente capisce. “È un gambaletto di legno. L’esplosione gli ha strappato la protesi e l’ha scagliata fin qui…”
“Ho trovato qualcuno…”, avverte una voce dalla sala adiacente.
È Khaled, rannicchiato addosso alla parete con la testa fra le gambe. L’esplosione l’ha sbattuto contro il muro e lì è rimasto per tutto il tempo, immobile, cercando di proteggersi la testa da eventuali crolli. La fronte gli sanguina, ma si capisce subito che non si tratta di una ferita grave.
“Anche qui ci sono altri corpi…”, dice un poliziotto che si è spinto più avanti degli altri all’interno del corridoio invaso dal fumo fino alla sala della biblioteca. “Sono tanti… sembrano tutti piccoli…”, dice incerto l’uomo, non riuscendo a distinguere bene le sagome. “…sono bambini…!”
Proprio nella biblioteca, la sala più vicina al bagno dove Khaled ha nascosto la borsa, vengono riscontrate Le conseguenze più gravi, naturalmente. Qui i bambini e le bambine stavano studiando, al momento dell’esplosione, aiutate da un paio di adulti. Immediatamente si contano tre morti ed una decina di feriti piuttosto gravi. Anche i due insegnanti giacciono riversi al suolo, senza vita. Dopo alcuni minuti, viene rinvenuto un altro cadavere, nel cortile interno dell’edificio, scagliato dall’esplosione fuori dalla finestra. È il corpicino di Fatima, talmente piccolo da essere stato confuso, all’inizio, con le macerie del muro e degli infissi e con le tende strappate e arrotolate lì vicino.
Le ricerche proseguono. Nessuno sa quante persone fossero presenti all’interno del centro. Nel frattempo gli adulti rinvenuti nella sala all’ingresso cominciano lentamente a riprendere conoscenza. Ancora nessuna ambulanza è arrivata a soccorrerli e in loco sono giunti solo alcuni dottori a bordo di semplici auto mediche. Le loro apparecchiature si riducono a pochi strumenti di primo intervento e per il momento si stanno limitando a tamponare le emorragie più gravi.
“Signoni dobede utaci ai detivicare…”, sta sbraitando un poliziotto in faccia ad Habib. È la terza volta che ripete la stessa domanda, ogni volta alzando il volume della voce. Habib lo guarda intontito senza capire una parola: sente un forte sibilo nella testa e sembra tornato incapace di comprendere l’italiano.
“?Kayf haalak”, come stai?, chiede subito Habib a suo figlio quando questi finalmente lo raggiunge e lo aiuta a sollevarsi.
“È esplosa una bomba…”, risponde Khaled, assecondando per una volta la lingua paterna.
“Stai bene?”, chiede di nuovo Habib.
“Io sì…” risponde Khaled laconico.
“E… Fatima?!”, lo incalza subito Habib, resosi finalmente conto di non averla ancora vista in giro. Khaled non ha il coraggio di pronunciare le due terribili parole e si limita a scuotere il capo chiudendo gli occhi.
Habib si copre il capo con le mani ripetendo soltanto “La, la, mish mumkin, la…”, no, no, non è possibile, no, ininterrottamente. Non ha nemmeno la forza di stare in piedi e si accascia di nuovo sul pavimento.
I poliziotti stanno chiedendo anche agli altri due uomini che nel frattempo sono rinvenuti, di aiutarli ad elencare i presenti nel centro e ad identificare i morti ed i feriti. Un lavoro ingrato, ma che deve essere fatto al più presto per permettere alle forze dell’ordine di capire se sono necessarie ulteriori ricerche sotto le macerie oppure se ci si può dedicare esclusivamente ai superstiti rinvenuti.
Nel frattempo, i corpi al momento trovati, ed anche i feriti più gravi, sono stati radunati all’esterno dell’edificio, sul terreno i primi e sulle barelle gli altri. Il sole si sta velocemente abbassando ed ha assunto un colore arancione particolarmente scuro. Tutto sembra essere macchiato del rosso sangue dei morti. I corpi dei piccoli, coperti con un lenzuolo bianco e freddo, stonano come cumuli di ghiaccio nel sole di fine agosto.
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